Michela Rigoni

Coordinatrice del progetto Breath. Ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Biomediche, Università degli Studi di Padova.

Sono nata a Vicenza, ho 46 anni, sono sposata e mamma di due ragazzi di 13 e 15 anni. Il desiderio di diventare una ricercatrice è emerso durante la mia esperienza di tesi in laboratorio: un anno intensissimo in cui mi sono scontrata con le mie tante insicurezze e ho sentito forte il divario (apparente) tra ciò che avevo appreso sui libri e la vita in laboratorio. E’ stata una sfida incredibile, ogni giorno imparavo cose nuove e questo mi dava sicurezza, e allo stesso tempo c’erano altre sfide da affrontare. E col tempo ho capito il valore del percorso di studi che avevo scelto.

Uno degli aspetti più belli di questo mondo è il lavoro di squadra, i continui confronti, il mettersi in gioco. Sono diventata ricercatrice perché ho bisogno di capire il perché delle cose, sempre. E la cosa sconvolgente è che serve anche molta fantasia! E’ un lavoro mai uguale a se stesso, che tiene la mente sempre attiva, in fermento, che ti fa capire che non esiste una verità assoluta, e che abbiamo ancora tante cose da imparare, siamo eterni studenti.

La maggior parte della mia esperienza lavorativa si è svolta a Padova, dove mi sono laureata in Biologia e ho ottenuto il Dottorato di ricerca. Da assegnista ho trascorso alcuni arricchenti mesi nel laboratorio diretto dal Prof. Giampietro Schiavo, che all’epoca lavorava al Cancer Research Institute a Londra. Il Prof. Schiavo è stato ed è un mentore ed un amico, una figura di riferimento importante nel mio percorso scientifico.

Non ho un modello di riferimento in particolare, ma ho grande stima per tutte le scienziate che, in Italia e all’estero, rappresentano il nostro Paese e ne testimoniano il grande valore in termini di preparazione accademica e di approccio alla ricerca.

Fin da laureanda, ho lavorato nel laboratorio diretto dal Prof. Montecucco, una figura di grande fama nel mondo accademico e scientifico. Da lui ho appreso il modo di approcciare un problema biologico, inserendo il tema di interesse in un contesto più ampio, integrato, interrogandosi sempre sul suo significato da un punto di vista evolutivo, e di organismo nel suo insieme. Da lui ho appreso la tenacia nel ricercare, nel superare gli ostacoli.

Studio la SLA perché, occupandomi da sempre di ricerca di base, indispensabile per spiegare il perché di tanti processi fisiologici e patologici, spero di dare risposte concrete ai tanti quesiti su questa malattia, e di contribuire a nuove prospettive in ambito terapeutico. E sono fiduciosa che il mio progetto finanziato da AriSLA getterà le basi per dimostrare che stimolare la rigenerazione del motoneurone alla periferia rappresenti un grande potenziale terapeutico. Spero davvero che il mio lavoro possa aiutare gli altri, fosse anche soltanto un piccolo pezzo di un puzzle più grande.

Lavoro con un team di giovani a cui sono molto legata, e verso i quali sento la responsabilità di trasmettere non solo contenuti, ma un approccio alla ricerca, di aiutarli a sviluppare un pensiero critico nei confronti di ciò che si legge e si osserva. E’ bello vederli crescere, nella vita personale e in quella professionale.

Ho incontrato alcuni pazienti SLA ad un meeting Arisla di alcuni anni fa a Napoli. Era stato proiettato uno straordinario filmato divulgativo su questa patologia, ricordo le lacrime agli occhi. Ricordo i familiari che accompagnavano i loro cari malati pieni di speranza nei confronti del lavoro di noi ricercatori, desiderosi di capire se c’erano finalmente delle cure, se ci eravamo riusciti: credo che questo ricordo sia una delle principali spinte nel mio lavoro!

Tra le mie passioni c’è quella per i viaggi, attraverso cui coltivo il mio desiderio di conoscere e volgo lo sguardo verso altri mondi: perché ne sono convinta, non si smette mai di imparare! (data pubblicazione 25/8/2022)

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